"Un uomo che teme di soffrire soffre già quello che teme." Montaigne

24 agosto 2011

Bracciano. 24 agosto 2011. Tipasa

  In primavera, Tipasa è abitata dagli dei e gli dei parlano nel sole e nell'odore degli assenzi, nel mare corazzato d'argento, nel cielo d'un blu crudo, fra le rovine coperte di fiori e nelle grosse bolle di luce, fra i mucchi di pietre. In certe ore la campagna è nera di sole. Gli occhi tentano invano di cogliere qualcosa che non sian le gocce di luce e di colore che tremano sulle ciglia. Il voluminoso odore delle piante aromatiche raschia in gola e soffoca nella calura enorme. All'estremità del paesaggio, posso vedere a stento la massa scura dello Chenoua che ha la base fra le colline intorno al villaggio, e si muove con ritmo deciso e pesante per andare ad accosciarsi nel mare.
  Arriviamo dal villaggio che s'apre già sulla baia. Entriamo in un mondo giallo e turchino dove ci accoglie l'alito odoroso e acre della terra algerina d'estate. Dovunque, buganvillee rosate traboccano dai muri delle ville; nei giardini l'ibisco dal rosso ancor pallido, una profusione di rose tea dense come crema e delicate bordure di lunghi giaggioli azzurri. Tutte le pietre sono calde. Nel momento in cui noi scendiamo dall'autobus color ranuncolo, i macellai nei loro furgoni rossi compiono il giro mattutino e lo squillare delle loro trombe chiama gli abitanti.
  Alla sinistra del porto una scala di pietre secche conduce alle rovine fra il lentischio e le ginestre. La strada passa davanti a un piccolo faro, per inoltrarsi poi in piena campagna. Già, ai piedi del faro, grosse piante grasse, dai fiori violetti, gialli e rossi, scendono verso le prime rocce che il mare succhia con un mormorio di baci. Ritti nel vento leggero, sotto il sole che ci riscalda una sola parte del viso, guardiamo la luce scendere dal cielo, il mare senza increspature, e il sorriso dei suoi denti smaglianti. Prima di entrare nel regno delle rovine, per l'ultima volta siamo spettatori.
  Dopo pochi passi, gli assenzi ci prendono alla gola. La loro lanugine grigia copre le rovine a perdita d'occhio. La loro essenza fermenta sotto il caldo, e dalla terra al sole si leva su tutta la distesa del mondo un alcool generoso che fa vacillare il cielo. Andiamo incontro all'amore e al desiderio. Non cerchiamo insegnamenti, né l'amara filosofia che si cerca nella grandezza. All'infuori del sole, dei baci e dei profumi selvaggi, tutto ci sembra futile. Quanto a me, io non cerco di rimaner solo. Ci sono andato spesso insieme a quelli che amavo e leggevo sui loro lineamenti il luminoso sorriso che vi assumeva l'immagine dell'amore. Qui, lascio ad altri l'ordine e la misura. E' il gran libertinaggio della natura e del mare che si impossessa completamente di me. In questa unione dei ruderi e della primavera, i ruderi sono tornati ad essere pietra, e perdendo il lustro imposto dall'uomo, sono rientrati nella natura. Per il ritorno di questi figli prodighi, la natura ha prodigato i fiori. Fra le pietre del foro s'innalza la testa bianca e rotonda dell'eliotropio, e i gerani rossi versano il loro sangue su ciò che furono case, templi e piazze pubbliche. Come quegli uomini che molta scienza riconduce a Dio, i molti anni hanno riportato le rovine alla casa della madre. Oggi finalmente il passato le abbandona, e nulla le sottrae a quella forza profonda che le riporta al cuore delle cose che cadono.
  Quante ore passate a calpestare gli assenzi, ad accarezzare le rovine, a tentare di accordare il mio respiro con il sospirare tumultuoso del mondo! Immerso negli odori selvaggi e fra i concerti d'insetti assonnati, apro gli occhi e il cuore alla grandezza insostenibile di questo cielo saturo di calore. Non è così facile diventare ciò che si è, ritrovare la propria misura profonda. Ma guardando il dorso solido dello Chenoua, il mio cuore si colmava di una strana certezza. Imparavo a respirare, mi integravo e mi compivo. Salivo una dopo l'altra le balze, ciascuna delle quali mi serbava una ricompensa, come quel tempio le cui colonne misurano la corsa del sole e da cui si vede tutto il villaggio, i suoi muri bianchi e rosa e le verdi verande. E come quella basilica sulla collina orientale: essa ha conservato le proprie mura e per un vasto raggio intorno si allineano sarcofaghi esumati, la maggior parte usciti appena dalla terra, di cui sono ancora partecipi.  Essi hanno contenuto dei morti; ora vi crescono salvia e violaciocche. La basilica di Sainte-Salsa è cristiana, ma ogni volta che si guarda attraverso un'apertura, è la melodia del mondo che giunge fino a noi: pendii coperti di pini e di cipressi, oppure il mare. La collina su cui sorge Sainte-Salsa è piatta in cima e il vento soffia più ampio attraverso i porticati. Sotto il sole del mattino una grande felicità ondeggia nello spazio.
  Poverissimi sono coloro che hanno bisogno di miti. Qui gli dei servono da letto o da punto di riferimento nella corsa dei giorni. Io descrivo e dico: "Questo è rosso, è blu, è verde. Questo è mare, montagna, fiori." Che bisogno ho di parlare di Dioniso per dire che mi piace schiacciare le bacche del lentischio sotto il naso? E non so nemmeno se sia di Demetrio il vecchio inno al quale penserò liberamente più tardi: "Felice colui tra i viventi sulla terra che ha visto queste cose." Vedere e vedere su questa terra, come dimenticare la lezione? Nei misteri di Eleusi, bastava contemplare. Qui, so che mai mi avvicinerò abbastanza al mondo. Devo essere nudo e poi immergermi nel mare, ancora tutto odoroso delle essenze della terra, lavare queste in quello, e allacciare sulla mia pelle la stretta per la quale da tanto tempo sospirano labbra a labbra la terra e il mare. Entrato nell'acqua, il brivido, il salire di una vischiosità fredda e opaca, poi il tuffo nel ronzio delle orecchie, il naso che cola e la bocca amara - nuotare, le braccia lucide d'acqua uscite dal mare per dorarsi nel sole e ripiegate in una torsione di tutti i muscoli; l'acqua che scorre sul mio corpo, le gambe che prendono tumultuosamente possesso dell'onda - e l'assenza d'orizzonte. Sulla spiaggia, cadere nella sabbia, abbandonato al mondo, rientrato nella mia pesantezza di carne e d'ossa, intontito di sole, con uno sguardo, di tanto in tanto, alle braccia ove la pelle asciugando scopre, quando l'acqua scivola via, la peluria bionda e il polverio di sale.
  Qui capisco quel che chiamano gloria: il diritto di amare senza misura. C'è un solo amore in questo mondo. Stringere un corpo di donna è anche tenere contro di sé questa gioia strana che scende dal cielo verso il mare. Fra poco, quando mi getterò negli assenzi per farmi entrare il loro profumo nel corpo, sarò cosciente, contro ogni pregiudizio, di compire una verità che è quella del sole e sarà anche quella della mia morte. In certo senso, è proprio la mia vita che io recito qui, una vita che sa di pietra calda, piena dei sospiri del mare e della cicale che cominciano a cantare adesso. La brezza è fresca e il cielo turchino. Amo questa vita con abbandono e voglio parlarne liberamente: essa mi dà l'orgoglio della mia condizione d'uomo. Pure, spesso mi è stato detto: non esiste nulla di cui essere fiero. Sì, qualcosa c'è: questo sole, questo mare, il mio cuore che balza di giovinezza, il mio corpo che sa di sale e l'immenso scenario dove s'incontrano l'amore e la gloria nel giallo e nell'azzurro. E' per conquistare questo che devo adoperare la mia forza e le mie risorse. Qui tutto mi lascia integro, non abbandono nulla di me stesso, non indosso alcuna maschera. mi basta apprendere pazientemente la difficile scienza della vita che vale certamente tutto il loro saper vivere.
  Un po' prima di mezzogiorno, ritornavamo dalle rovine verso un piccolo caffè sul porto. Con la testa risonante dei cembali del sole e dei colori, che fresco benvenuto quello della stanza piena d'ombra, del grande bicchiere di menta verde e ghiacciata! Fuori, il mare e la strada ardente di polvere. Seduto davanti al tavolo, cerco di afferrare tra il battito delle ciglia il barbaglio multicolore del cielo bianco di caldo. Con il volto madido di sudore, ma il corpo fresco nella tela leggera che ci copre, tutti mostriamo la felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo.
  Si mangia male in questo caffè, ma c'è molta frutta - specialmente pesche che si mangia mordendole, così che il succo cola sul mento. Con i denti affondati nella pesca, ascolto le forti pulsazioni del sangue salire fino alle orecchie, guardo tutt'occhi. Sul mare, è il silenzio enorme di mezzogiorno. Ogni creatura bella ha l'orgoglio naturale della propria bellezza e il mondo oggi lascia strillare il suo orgoglio da ogni parte. Perché, davanti al  mondo, negherei la gioia di vivere, se so di non poter limitare tutto alla gioia di vivere? Non c'è disonore a essere felici. Ma oggi l'imbecille è re, e chiamo imbecille colui che ha paura di gioire. Ci hanno tanto parlato dell'orgoglio: sapete, è il peccato di Satana, ci gridavano, perderete voi stessi e le vostre forze vive. Poi ho imparato infatti che un certo orgoglio... Ma in altri momenti non posso fare a meno di rivendicare l'orgoglio di vivere che tutto il mondo cospira a darmi. A Tipasa, io vedo equivale a io credo, e io non mi ostino a negare ciò che la mia mano può toccare e le mie labbra accarezzare. Non provo la necessità di fare un'opera d'arte, ma di raccontare ciò che è diverso. Tipasa mi appare come quei personaggi che si descrivono per esprimere indirettamente un modo di vedere il mondo. Come quelli, essa porta testimonianza, e virilmente. Essa è oggi il mio personaggio e mi sembra che a carezzarlo e a descriverlo, la mia ebbrezza non avrà più fine. C'è un tempo per vivere e un tempo per portare testimonianza del vivere. C'è anche un tempo per creare, che è meno naturale. Mi basta vivere con tutto il mio corpo e portare testimonianza con tutto il cuore. Vivere Tipasa, portare testimonianza e l'opera d'arte verrà in seguito. C'è in questo una libertà.

                                        Albert Camus - Le nozze di Tipasa