"Un uomo che teme di soffrire soffre già quello che teme." Montaigne

1 dicembre 2011

Bari. 01 dicembre 2011. Furioso

  Tutti gli altri animai che sono in terra,
o che vivon quïeti e stanno in pace,
o se vengono a rissa e si fan guerra,
alla femina il maschio non la face:
l'orsa con l'orso al bosco sicura erra, 
la leonessa appresso il leon giace;
col lupo vive la lupa sicura, 
né la iuvenca ha del torel paura.
  Ch'abominevol peste, che Megera
è venuta a turbar gli umani petti?
che si sente il marito e la mogliera
sempre garrir d'ingiurïosi detti,
stracciar la faccia e far livida e nera,
bagnar di pianto i genïali letti;
e non di pianto sol, ma alcuna volta
di sangue gli ha bagnati l'ira stolta.
  Parmi non sol gran mal, ma che l'uom faccia
contra natura e sia di Dio ribello, 
che s'induce a percuotere la faccia
di bella donna, o romperle un capello:
ma chi le dà veneno, o chi le caccia
l'alma del corpo con laccio o coltello, 
ch'uomo sia quel non crederò in eterno,
ma in vista umana un spirto de l'inferno.

Ludovico Ariosto - Orlando Furioso, V, I-III

31 ottobre 2011

Bracciano. 31 ottobre 2011. Angolazioni

Da questo angolo di mondo mi sembra di vedere tutto grigio e sporco - o forse è il cielo, ed io non me n'accorgo. Giro la testa, inclinata lievemente, una posa innaturale che orienta la realtà.
Succede poi d'un tratto di vedermi di fronte a me. I miei occhi nei miei occhi, d'un altro colore. Forse la loro vista è migliore - ma come potrebbe, se vede me?
Rimane un mistero insondabile di lampi imprecisi.

24 agosto 2011

Bracciano. 24 agosto 2011. Tipasa

  In primavera, Tipasa è abitata dagli dei e gli dei parlano nel sole e nell'odore degli assenzi, nel mare corazzato d'argento, nel cielo d'un blu crudo, fra le rovine coperte di fiori e nelle grosse bolle di luce, fra i mucchi di pietre. In certe ore la campagna è nera di sole. Gli occhi tentano invano di cogliere qualcosa che non sian le gocce di luce e di colore che tremano sulle ciglia. Il voluminoso odore delle piante aromatiche raschia in gola e soffoca nella calura enorme. All'estremità del paesaggio, posso vedere a stento la massa scura dello Chenoua che ha la base fra le colline intorno al villaggio, e si muove con ritmo deciso e pesante per andare ad accosciarsi nel mare.
  Arriviamo dal villaggio che s'apre già sulla baia. Entriamo in un mondo giallo e turchino dove ci accoglie l'alito odoroso e acre della terra algerina d'estate. Dovunque, buganvillee rosate traboccano dai muri delle ville; nei giardini l'ibisco dal rosso ancor pallido, una profusione di rose tea dense come crema e delicate bordure di lunghi giaggioli azzurri. Tutte le pietre sono calde. Nel momento in cui noi scendiamo dall'autobus color ranuncolo, i macellai nei loro furgoni rossi compiono il giro mattutino e lo squillare delle loro trombe chiama gli abitanti.
  Alla sinistra del porto una scala di pietre secche conduce alle rovine fra il lentischio e le ginestre. La strada passa davanti a un piccolo faro, per inoltrarsi poi in piena campagna. Già, ai piedi del faro, grosse piante grasse, dai fiori violetti, gialli e rossi, scendono verso le prime rocce che il mare succhia con un mormorio di baci. Ritti nel vento leggero, sotto il sole che ci riscalda una sola parte del viso, guardiamo la luce scendere dal cielo, il mare senza increspature, e il sorriso dei suoi denti smaglianti. Prima di entrare nel regno delle rovine, per l'ultima volta siamo spettatori.
  Dopo pochi passi, gli assenzi ci prendono alla gola. La loro lanugine grigia copre le rovine a perdita d'occhio. La loro essenza fermenta sotto il caldo, e dalla terra al sole si leva su tutta la distesa del mondo un alcool generoso che fa vacillare il cielo. Andiamo incontro all'amore e al desiderio. Non cerchiamo insegnamenti, né l'amara filosofia che si cerca nella grandezza. All'infuori del sole, dei baci e dei profumi selvaggi, tutto ci sembra futile. Quanto a me, io non cerco di rimaner solo. Ci sono andato spesso insieme a quelli che amavo e leggevo sui loro lineamenti il luminoso sorriso che vi assumeva l'immagine dell'amore. Qui, lascio ad altri l'ordine e la misura. E' il gran libertinaggio della natura e del mare che si impossessa completamente di me. In questa unione dei ruderi e della primavera, i ruderi sono tornati ad essere pietra, e perdendo il lustro imposto dall'uomo, sono rientrati nella natura. Per il ritorno di questi figli prodighi, la natura ha prodigato i fiori. Fra le pietre del foro s'innalza la testa bianca e rotonda dell'eliotropio, e i gerani rossi versano il loro sangue su ciò che furono case, templi e piazze pubbliche. Come quegli uomini che molta scienza riconduce a Dio, i molti anni hanno riportato le rovine alla casa della madre. Oggi finalmente il passato le abbandona, e nulla le sottrae a quella forza profonda che le riporta al cuore delle cose che cadono.
  Quante ore passate a calpestare gli assenzi, ad accarezzare le rovine, a tentare di accordare il mio respiro con il sospirare tumultuoso del mondo! Immerso negli odori selvaggi e fra i concerti d'insetti assonnati, apro gli occhi e il cuore alla grandezza insostenibile di questo cielo saturo di calore. Non è così facile diventare ciò che si è, ritrovare la propria misura profonda. Ma guardando il dorso solido dello Chenoua, il mio cuore si colmava di una strana certezza. Imparavo a respirare, mi integravo e mi compivo. Salivo una dopo l'altra le balze, ciascuna delle quali mi serbava una ricompensa, come quel tempio le cui colonne misurano la corsa del sole e da cui si vede tutto il villaggio, i suoi muri bianchi e rosa e le verdi verande. E come quella basilica sulla collina orientale: essa ha conservato le proprie mura e per un vasto raggio intorno si allineano sarcofaghi esumati, la maggior parte usciti appena dalla terra, di cui sono ancora partecipi.  Essi hanno contenuto dei morti; ora vi crescono salvia e violaciocche. La basilica di Sainte-Salsa è cristiana, ma ogni volta che si guarda attraverso un'apertura, è la melodia del mondo che giunge fino a noi: pendii coperti di pini e di cipressi, oppure il mare. La collina su cui sorge Sainte-Salsa è piatta in cima e il vento soffia più ampio attraverso i porticati. Sotto il sole del mattino una grande felicità ondeggia nello spazio.
  Poverissimi sono coloro che hanno bisogno di miti. Qui gli dei servono da letto o da punto di riferimento nella corsa dei giorni. Io descrivo e dico: "Questo è rosso, è blu, è verde. Questo è mare, montagna, fiori." Che bisogno ho di parlare di Dioniso per dire che mi piace schiacciare le bacche del lentischio sotto il naso? E non so nemmeno se sia di Demetrio il vecchio inno al quale penserò liberamente più tardi: "Felice colui tra i viventi sulla terra che ha visto queste cose." Vedere e vedere su questa terra, come dimenticare la lezione? Nei misteri di Eleusi, bastava contemplare. Qui, so che mai mi avvicinerò abbastanza al mondo. Devo essere nudo e poi immergermi nel mare, ancora tutto odoroso delle essenze della terra, lavare queste in quello, e allacciare sulla mia pelle la stretta per la quale da tanto tempo sospirano labbra a labbra la terra e il mare. Entrato nell'acqua, il brivido, il salire di una vischiosità fredda e opaca, poi il tuffo nel ronzio delle orecchie, il naso che cola e la bocca amara - nuotare, le braccia lucide d'acqua uscite dal mare per dorarsi nel sole e ripiegate in una torsione di tutti i muscoli; l'acqua che scorre sul mio corpo, le gambe che prendono tumultuosamente possesso dell'onda - e l'assenza d'orizzonte. Sulla spiaggia, cadere nella sabbia, abbandonato al mondo, rientrato nella mia pesantezza di carne e d'ossa, intontito di sole, con uno sguardo, di tanto in tanto, alle braccia ove la pelle asciugando scopre, quando l'acqua scivola via, la peluria bionda e il polverio di sale.
  Qui capisco quel che chiamano gloria: il diritto di amare senza misura. C'è un solo amore in questo mondo. Stringere un corpo di donna è anche tenere contro di sé questa gioia strana che scende dal cielo verso il mare. Fra poco, quando mi getterò negli assenzi per farmi entrare il loro profumo nel corpo, sarò cosciente, contro ogni pregiudizio, di compire una verità che è quella del sole e sarà anche quella della mia morte. In certo senso, è proprio la mia vita che io recito qui, una vita che sa di pietra calda, piena dei sospiri del mare e della cicale che cominciano a cantare adesso. La brezza è fresca e il cielo turchino. Amo questa vita con abbandono e voglio parlarne liberamente: essa mi dà l'orgoglio della mia condizione d'uomo. Pure, spesso mi è stato detto: non esiste nulla di cui essere fiero. Sì, qualcosa c'è: questo sole, questo mare, il mio cuore che balza di giovinezza, il mio corpo che sa di sale e l'immenso scenario dove s'incontrano l'amore e la gloria nel giallo e nell'azzurro. E' per conquistare questo che devo adoperare la mia forza e le mie risorse. Qui tutto mi lascia integro, non abbandono nulla di me stesso, non indosso alcuna maschera. mi basta apprendere pazientemente la difficile scienza della vita che vale certamente tutto il loro saper vivere.
  Un po' prima di mezzogiorno, ritornavamo dalle rovine verso un piccolo caffè sul porto. Con la testa risonante dei cembali del sole e dei colori, che fresco benvenuto quello della stanza piena d'ombra, del grande bicchiere di menta verde e ghiacciata! Fuori, il mare e la strada ardente di polvere. Seduto davanti al tavolo, cerco di afferrare tra il battito delle ciglia il barbaglio multicolore del cielo bianco di caldo. Con il volto madido di sudore, ma il corpo fresco nella tela leggera che ci copre, tutti mostriamo la felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo.
  Si mangia male in questo caffè, ma c'è molta frutta - specialmente pesche che si mangia mordendole, così che il succo cola sul mento. Con i denti affondati nella pesca, ascolto le forti pulsazioni del sangue salire fino alle orecchie, guardo tutt'occhi. Sul mare, è il silenzio enorme di mezzogiorno. Ogni creatura bella ha l'orgoglio naturale della propria bellezza e il mondo oggi lascia strillare il suo orgoglio da ogni parte. Perché, davanti al  mondo, negherei la gioia di vivere, se so di non poter limitare tutto alla gioia di vivere? Non c'è disonore a essere felici. Ma oggi l'imbecille è re, e chiamo imbecille colui che ha paura di gioire. Ci hanno tanto parlato dell'orgoglio: sapete, è il peccato di Satana, ci gridavano, perderete voi stessi e le vostre forze vive. Poi ho imparato infatti che un certo orgoglio... Ma in altri momenti non posso fare a meno di rivendicare l'orgoglio di vivere che tutto il mondo cospira a darmi. A Tipasa, io vedo equivale a io credo, e io non mi ostino a negare ciò che la mia mano può toccare e le mie labbra accarezzare. Non provo la necessità di fare un'opera d'arte, ma di raccontare ciò che è diverso. Tipasa mi appare come quei personaggi che si descrivono per esprimere indirettamente un modo di vedere il mondo. Come quelli, essa porta testimonianza, e virilmente. Essa è oggi il mio personaggio e mi sembra che a carezzarlo e a descriverlo, la mia ebbrezza non avrà più fine. C'è un tempo per vivere e un tempo per portare testimonianza del vivere. C'è anche un tempo per creare, che è meno naturale. Mi basta vivere con tutto il mio corpo e portare testimonianza con tutto il cuore. Vivere Tipasa, portare testimonianza e l'opera d'arte verrà in seguito. C'è in questo una libertà.

                                        Albert Camus - Le nozze di Tipasa

6 luglio 2011

Altamura. 06 luglio 2011

E adesso non rimane che dormire,
gettare i rimasugli di questa giornata
storta tra le lenzuola scombinate,
molcere in loro il mio vago spirito.
Dormire come un assaggio di morte –
ma se questo è morire, questo
continuo immaginare che sa di sogno,
questo vago incespicare in tangibili
desideri, questo lento vacillare –
allora forse la morte non sarà tanto male.

2 luglio 2011

Altamura. 02 luglio 2011

E’ un vago intorpidimento alle dita.
Parte lieve, all’altezza del gomito,
e  scende facendosi più denso,
si concentra nei polpastrelli.
Cadono pesanti su questi tasti,
ogni lettera acquista gravità,
nulla può essere a caso
eppure tutto è fuor di ragione.
Intanto più su
il cervello evapora in bolle leggere.

Sembra che tutto voglia fuggire
lontano dal cuore.

15 giugno 2011

Agonia

   Girerò per le strade finché non sarò stanca morta

saprò vivere sola e fissare negli occhi

ogni volto che passa e restare la stessa.

Questo fresco che sale a cercarmi le vene

è un risveglio che mai nel mattino ho provato

così vero: soltanto, mi sento più forte

che il mio corpo, e un tremore più freddo accompagna

               il mattino.


Son lontani i mattini che avevo vent’anni.

E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,

ne ricordo ogni sasso e le striscie di cielo.

Da domani la gente riprende a vedermi

e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi

e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,

ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo

di esser io che passavo – una donna, padrona

di se stessa. La magra bambina che fui

si è svegliata da un pianto durato per anni:

ora è come quel pianto non fosse mai stato.


E desidero solo colori. I colori non piangono,

sono come un risveglio: domani i colori

torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,

ogni corpo un colore – perfino i bambini.

Questo corpo vestito di rosso leggero

dopo tanto pallore riavrà la sua vita.

Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi

e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,

mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,

uscirò per le strade cercando i colori.


[1933]


                        Cesare Pavese

16 maggio 2011

Ricordi


Riflessioni di una notte inerme. 21 febbraio 2006.


La terra è umida
non posso fare nulla per bruciarla
le mani cercano di spolverare via
le macerie di sogni
che soffocano tesori.
Lei rimane lì scura e grumosa
aspettando ch'io cessi di cercare.
Stavolta non lascerò nuove rovine
a coprire lucentezze e bagliori.
Le unghie affondano
laddove leggerezza non ha avuto fortuna
si lacerano contro le pietre.
Più vanno a fondo
più la difesa si fa serrata.
C'è davvero qualcosa da difendere.
Tutta questa tenacia non può essere per niente.
Graffio via ogni cosa sotto di me.
Freddo bronzeo di ruggine.
Lo sento e nulla posso.
Quel che resta degli artigli
non è sufficiente a portarlo alla luce.
Aspetto le lacrime
per lavar via lo sporco dalle mani
chiuse insieme ad attendere
di riempirsi come pozza d'acqua.
Hanno troppi buchi, le mie mani
per riuscire a trattenere.
Troppi buchi ma se le stringessi di più
potrebbero elemosinare dal cielo
un piccolo lago.
Lavar non solo se stesse
ma il mio viso segnato
la stanchezza sanguigna degli occhi
l'aridità delle labbra
la vecchiezza del corpo.
In questa notte inerme
demolisco cadute deluse
per scoprire ricchezze sotterranee
e lavar via il torpore.
Senza sangue
nessun lavacro è sacro.
Le civette urlano vicino a me.

12 maggio 2011

Amiamo or quando…

- Deh mira – egli cantò – spuntar la rosa
dal verde suo modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega; ecco poi langue e non par quella,
quella non par che desiata inanti
fu da mille donzelle e mille amanti.
Così trapassa al trapassar d'un giorno
de la vita mortale il fiore e 'l verde;
né perché faccia indietro april ritorno,
si rinfiora ella mai, né si rinverde.
Cogliam la rosa in su 'l mattino adorno
di questo dì, che tosto il seren perde;
cogliam d'amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando.

Torquato Tasso Gerusalemme liberata, XVI, 14-15

7 aprile 2011

Episodio

Qualunque cosa sognamo,
   ogni sogno è realtà.
Tutto quel che appare,
   Dio lo fa visibile
e dunque è
reale come ogni cosa.

Tutto ciò che desideriamo,
   lo otteniamo altrove,
ora, sempre ora, e qui
   siamo ricchi dell'al di là.
Nel nostro sentirci io
autodiscerniamo Dio.

A volte penso che la speranza
   possa tramutare tutto in realtà,
ma mi fermo, brancolo
   e la vita, la paura e il dolore
è tutto ciò che resta.
Perché dunque queste pene,

quest'inquietudine che fa fremere
   di una possibile gioia
tutto il dolore che colma
   la nostra speranza fino a nausearla?
Perché questo, perché,
se tutto è incerto?

Oh, concedetemi una brezza
   su di un prato di questa terra,
e lasciate che quella brezza appaghi
   benché io non capisca.
Per ogni angoscia c'è
un vago desiderio di felicità.

        Fernando Pessoa

17 marzo 2011

Bari. 17 marzo 2011

Da cosa dovrei accorgermi ch’è festa?

Dalle serrande chiuse alla finestra?

Da un letto disfatto in lontananza,

quasi fosse infinita questa stanza?

Dalla luce accesa alla scrivania?

Dal silenzio immoto per la via?

Dal freddo che passa sotto i vetri?

Dal fatto che ancor più t’arretri?

Dalla testa che duole dei suoi guai?

Da ciò che non sono stato mai?

Un giorno come un altro, questo mio,

se non peggio. Me ne resto nell’oblio.

9 marzo 2011

I ciechi

Non c'è vicenda di Tebe in cui manchi il cieco indovino Tiresia. Poco dopo questo colloquio cominciarono le sventure di Edipo  - vale a dire, gli si aprirono gli occhi, e lui stesso se li crepò dall'orrore.


(Parlano Edipo e Tiresia)


EDIPO Vecchio Tiresia, devo credere a quel che si dice qui in Tebe, che ti hanno accecato gli dèi per loro invidia?

TIRESIA Se è vero che tutto ci viene da loro, devi crederci.

EDIPO Tu che dici?

TIRESIA Che degli dèi si parla troppo. Esser cieco non è una disgrazia diversa da esser vivo. Ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare.

EDIPO Ma allora gli dèi che ci fanno?

TIRESIA Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l'unico dio - quando il tempo non era ancora nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose - adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi.

EDIPO Proprio tu, sacerdote, dici questo?

TIRESIA Se non sapessi almeno questo, non sarei sacerdote. Prendi un ragazzo che si bagna nell'Asopo. E' un mattino d'estate. Il ragazzo esce dall'acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa. Gli prende male e annega. Che cosa c'entrano gli dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine, oppure il piacere goduto? Né l'uno né l'altro. E' accaduto qualcosa - che non è bene nè male, qualcosa che non ha nome - gli daranno poi un nome gli dèi.

EDIPO E dar il nome, spiegare le cose, ti par poco, Tiresia?

TIRESIA Tu sei giovane, Edipo, e come gli dèi che sono giovani rischiari tu stesso le cose e le chiami. Non sai ancora che sotto la terra c'è roccia e che il cielo più azzurro è il più vuoto. Per chi come me non ci vede, tutte le cose sono un urto, non altro.

EDIPO Ma sei pure vissuto praticando gli dèi. Le stagioni, i piaceri, le miserie umane ti hanno a lungo occupato. Si racconta di te più d'una favola, come di un dio. E qualcuna così strana, così insolita, che dovrà pure avere un senso - magari quello delle nuvole nel cielo.

TIRESIA Sono molto vissuto. Sono vissuto tanto che ogni storia che ascolto mi pare la mia. Che senso dici delle nuvole nel cielo?

EDIPO Sei sempre stato quel che sei, vecchio Tiresia?

TIRESIA Ah ti afferro. La storia dei serpi. Quando fui donna per sette anni. Ebbene, che ci trovi in questa storia?

EDIPO A te è accaduto e tu lo sai. Ma senza un dio queste cose non accadono.

TIRESIA Tu credi? Tutto può accadere sulla terra. Non c'è nulla d'insolito. A quel tempo provavo disgusto delle cose del sesso - mi pareva che lo spirito, la santità, il mio carattere, ne fossero avviliti. Quando vidi i due serpi godersi e mordersi sul muschio, non potei trattenere il mio dispetto: li toccai col bastone. Poco dopo, ero donna - e per anni il mio orgoglio fu costretto a subire. Le cose del mondo sono roccia, Edipo.

EDIPO Ma è davvero così vile il sesso della donna?

TIRESIA Nient'affatto. Non ci sono cose vili se non per gli dèi. Ci sono fastidi, disgusti e illusioni che, toccando la roccia, dileguano. Qui la roccia fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresenza sotto tutte le forme e i mutamenti. Da uomo a donna, e viceversa (sett'anni dopo rividi i due serpi), quel che non volli consentire con lo spirito mi venne fatto per violenza o per libidine, e io, uomo sdegnoso o donna avvilita, mi scatenai come una donna e fui abietto come un uomo, e seppi ogni cosa del sesso: giunsi al punto che uomo cercavo gli uomini e donna le donne.

EDIPO Vedi dunque che un dio ti ha insegnato qualcosa

TIRESIA Non c'è dio sopra il sesso. E' la roccia, ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra, ecco hai l'immagine del sesso. C'è in esso la vita e la morte. Quale dio può incarnare e comprendere tanto?

EDIPO Ma tu stesso. L'hai detto.

TIRESIA Tiresia è vecchio e non è un dio. Quand'era giovane, ignorava. Il sesso è ambiguo e sempre univoco. E' una metà che appare un tutto. L'uomo arriva a incarnarselo, a viverci dentro come il buon nuotatore nell'acqua, ma intanto è invecchiato, ha toccato la roccia. Alla fine un'idea, un'illusione gli resta: che l'altro sesso ne esca sazio. Ebbene, non crederci: io so che per tutti è una vana fatica.

EDIPO Ribattere a quanto tu dici non è facile. Non per nulla la tua storia comincia coi serpo. Ma comincia pure col disgusto, col fastidio del sesso. E che diresti a un uomo valido che ti giurasse dìignorare il disgusto?

TIRESIA Che non è un uomo valido - è ancora un bambino.

EDIPO Anch'io, Tiresia, ho fatto incontri sulla strada di Tebe. E in uno di questi si è parlato dell'uomo - dall'infanzia alla morte - si è toccata la roccia anche noi. Da quel giorno fui marito e fui padre, e re di Tebe. Non c'è nella d'ambiguo o di vano, per me, nei miei giorni.

TIRESIA Non sei il solo, Edipo, a creder questo. Ma la roccia non si tocca a parole. Che gli dèi ti proteggano. Anch'io ti parlo e sono vecchio. Soltanto il cieco sa la tenebra. Mi pare di vivere fuori dal tempo, di esser sempre vissuto, e non credo più ai giorni. Anche in me c'è qualcosa che gode e sanguina.

EDIPO Dicevi che questo qualcosa era un dio. Perché, buon Tiresia, non provi a pregarlo?

TIRESIA Tutti preghiamo qualche dio, ma quel che accade non ha nome. Il ragazzo annegato un mattino d'estate, cosa sa degli dèi? Che gli giova pregare? C'è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda. Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiandosi accecano?

EDIPO Prego gli dèi che non mi accada.

Cesare Pavese - Dialoghi con Leucò

26 febbraio 2011

Altamura. 26 febbraio 2011. Pubblicità!

Guarda un po’ chi si vede in televisione. Compaiono Feltri e Belpietro a pubblicizzare “I Diari del Duce”, prossima pubblicazione allegata gratuitamente al quotidiano Libero per il mese p. v.
Mi son detta, informiamoci quanto meno, che potrebbe essere interessante. E mi rendo conto di come ad agosto scorso mi sia sfuggita la discussa notizia della pubblicazione di tali diari da parte dell’editrice Bompiani.
Allego qualche sito informativo:

Andrei a fare volentieri quattro chiacchiere con Luciano Canfora.

25 febbraio 2011

Altrove

Andiamo via, creatura mia,
  via verso l’Altrove.
Lì ci sono giorni sempre miti
  e campi sempre belli.

La luna che splende su chi
  là vaga contento e libero
ha intessuto la sua luce con le tenebre
  dell’immortalità.

Lì si incominciano a vedere le cose,
  le favole narrate sono dolci come quelle non raccontate,
lì le canzoni reali-sognate sono cantate
  da labbra che si possono contemplare.

Il tempo lì è un momento d’allegria,
  la vita una sete soddisfatta,
l’amore come quello di un bacio
  quando quel bacio è il primo.

Non abbiamo bisogno di una nave, creatura mia,
  ma delle nostre speranze finché saranno ancora belle,
non di rematori, ma di sfrenate fantasie.
  Oh, andiamo a cercar l’Altrove!


                      Fernando Pessoa

24 febbraio 2011

La nube

“Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei un di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sono immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti – se per errore li disturbi nel loro Olimpo – ti piombano addosso, e ti dànno la morte – quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente. (…) Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.”

Cesare Pavese Dialoghi con Leucò

20 febbraio 2011

La bellezza delle parole

La sera di quel giorno di martedì
una persona mi ha detto:
quando sei uscito da quelle quinte
e sei andato verso il microfono
mi sembravi un bambino piccolo piccolo vestito di blu
e io pensavo - diceva quella persona -
adesso è là ed è solo,
non ci sono più io,
è solo, davanti a tutta questa gente.
E se non lo capiranno?

E io adesso rispondo a questa persona:
io non sono mai stato solo in quei quattro minuti,
perché in quei quattro minuti avevo un filo
che mi legava continuamente a te.
E non me ne fregava niente,
se non mi capiva nemmeno una persona,
mi bastava che mi capissi tu
come hai fatto per trent'anni.
Grazie amore mio.

17 febbraio 2011

Il violinista pazzo

Non fluì dalla strada del nord
   né dalla via del sud
la sua musica selvaggia per la prima volta
   nel villaggio quel giorno.

Egli apparve all'improvviso nel sentiero,
   tutti uscirono ad ascoltarlo,
all'improvviso se ne andò, e invano
   sperarono di rivederlo.

La sua strana musica infuse
   in ogni cuore un desiderio di libertà.
Non era una melodia,
   e neppure una non melodia.

In un luogo molto lontano,
   in un luogo assai remoto,
costretti a vivere, essi
   sentirono una risposta a questo suono.

Risposta a quel desiderio
   che ognuno ha nel proprio seno,
il senso perduto che appartiene
   alla ricerca dimenticata.

La sposa felice capì
   d'esser malmaritata,
l'appassionato e contento amante
   si stancò di amare ancora,

la fanciulla e il ragazzo furono felici
   d'aver solo sognato,
i cuori solitari che erano tristi
   si sentirono meno soli in qualche luogo.

In ogni anima sbocciava il fiore
   che al tatto lascia polvere senza terra,
la prima ora dell'anima gemella,
   quella parte che ci completa,

l'ombra che viene a benedire
   dalle inespresse profondità lambite
la luminosa inquietudine
   migliore del riposo.

Così come venne andò via.
   Lo sentirono come un mezzo-essere.
Poi, dolcemente, si confuse
   con il silenzio e il ricordo.

Il sonno lasciò di nuovo il loro riso,
   morì la loro estatica speranza,
e poco dopo dimenticarono
   che era passato.

Tuttavia, quando la tristezza di vivere,
   poiché la vita non è voluta,
ritorna nell'ora dei sogni,
   col senso della sua freddezza,

improvvisamente ciascuno ricorda -
   risplendente come la luna nuova
dove il sogno-vita diventa cenere -
   la melodia del violinista pazzo.

         Fernando Pessoa

15 febbraio 2011

A mani vuote

Oggi sono andato in giro, senza incontrare nessuno. Il solo freddo del cielo m’aveva invitato, promettendomi cose che non poteva permettersi. Oggi sono andato in giro e non ho incontrato nessuno. Mi guardavo intorno voracemente, ma divoravo strade deserte. Gli usci erano chiusi, le finestre serrate, e l’aria si dilatava in molecole tanto introvabili da rendermi difficile respirare. I miei passi riempivano del loro aritmico pulsare le arterie, risuonavano come in un’aula pronta alla celebrazione del rito sacro. Un’aula vuota, senza fedeli, ed io un improvvisato presbitero con le mani tremanti. E’ la paura d’esser padroni e la paura di essere soli.

Altamura. 15 febbraio 2011

Un po' come prendere parte ad un discorso, e non aver nulla da dire.
Rimani lì, seduto, ad ascoltare, mentre la tua mente cerca di creare
folgoranti illuminazioni, intuizioni straordinarie. Risultato? Un niente
di fatto e un gran senso d'inutilità mista a frustrazione. C'erano tempi
in cui i voli erano immediati, le sinapsi in allerta, la risposta pronta.


Mi chiedo dove sono andati i tempi d'una volta, per Giunone.

7 febbraio 2011

Altamura. 07 febbraio 2011

Ancora una volta
vorrei udire dolce
il suono della tua voce
Ancora una volta
vorrei sentire sulla pelle
il tuo amore come carezza
Ancora una volta
vorrei che non fosse
solo sogno o illusione
Ancora una volta
vorrei saper aspettare
rispettare il tuo tempo
Ancora una volta
vorrei fossero un solo
tempo, il tuo ed il mio
uniti indissolubili come
rami nodosi d'ulivo.

Altamura. 07 febbraio 2011

Resto imprigionata nel rossore spumoso delle nuvole. Non sembra quasi più inverno. Da questa terrazza mi sporgo, inizio a volare. Vado a toccare il sole. Sotto di me è tutto tanto piccolo da mostrarmi chiara la sua insignificanza. Potrei rimanere a mezzaria qui, sola, ancora un secondo infinito. Libera.


Eppure il freddo mi ghiaccia il naso.

5 febbraio 2011

Altamura. 05 febbraio 2011. Nuvole barocche

Tengo tra le dita
ciò che resta
d’una foto sbiadita
In lontananza
l’orlo odoroso
della tua veste
Come temporale
in quelle sere
estive m’investe
E’ frastuono la mente
capogiro lo sguardo
sentire ferita ardente
E’ il ricordo di mille ore
da vivere ancora
da morire d’amore

3 febbraio 2011

Bari. 03 febbraio 2011

Sono seduto qui

a guardare sognare

Il tuo corpo immobile

vivo nei segreti

del silenzio fatto

di linee sottili

come onde leggere

Sembri calma placida

deserto radura

scultura

creata per restare

eternatrice del suo

mistero

Nascosto negli occhi

I tuoi

Quelli che tocchi

30 gennaio 2011

Altamura. 30 gennaio 2011

Finirà questa distanza nel farsi alba

un incresparsi di sogni blunotte

nel mare rossastro della realtà

Finirà questa distanza nella pioggia

una tenue lapidazione di colpe

mai provate mai commesse

Finirà questa distanza nel tempo

quando non sarai più capace

immobile di fingerti morta

Finirà questa distanza in una voce

inespressa un’ennesima volta

nel risponder ai mie richiami

Finirà questa distanza nello sguardo

incontro pastoso di tinte fugaci

contagio e indelebile mistura

29 gennaio 2011

Altamura. 29 gennaio 2011

Della natura umana la bramosia di possesso.

Prima d’incrociare uno sguardo immagino

il possibile futuro in cui l'avrò fatto mio.

E’ tutto una lenta conquista di cui talvolta

perdo il senso profondo. Come accade

dopo mezzora di godimento. E' venuto

già il momento di prendere e buttar via.

Ho gettato lo sguardo appena esaurito,

l'ho deposto per la strada. E' raccolto.

S'allontana dal mio. E torna il desiderio.


E’ l’orgoglio il sentimento più sincero.

E per me non esiste possesso.


25 gennaio 2011

Altamura. 25 gennaio 2011

Scivolano i fogli nell'aria
perdendo in lacrime le parole.
Voci attorcigliate le afferrano
al volo rendendole incomprensibili
- eterne. Sibili invisibili che si tagliano
si inseguono si toccano si intimano
l'un l'altro di andare e non tornare.

24 gennaio 2011

23 gennaio 2011

Altamura. 23 gennaio 2011


Sono abile retore. Dire e non dire, dosare, le parole, come zucchero e lama.
Affondare a granelli.
E può essere solo questione di sguardi. Non l'abbasserò mai per prima.
           Affondare a granelli.
Con te questo gioco non vale, l'hai vinta prima ancora di cominciare.
           Affondare a granelli.
Vivo in una città di cemento, foreranno e riempiranno anche il mio cervello.


         Ed affondo, a granelli.

9 gennaio 2011

Bari. 09 gennaio 2010

Altri tempi, quelli. In cui uscivi sul balcone e suggevi all'aria tutto l'ossigeno che aveva, che rendeva la tua mente leggera.

Ti sembra di respirare l'anidride carbonica che le cedi, senza che metta niente di suo. Forse il tuo respiro s'è fatto via via più forte e pesante, da non concederle alcuno spiraglio. Forse te ne dà ancora, ossigeno, ma non sei più capace di accettarlo.

Profumava l'aria di lavanda e rosmarino, ogni mattino. L'alba era rosa, eppur non ti dispiaceva. La tua mente, leggera.

8 gennaio 2011

Bari. 08 gennaio 2010

Ci sono troppe troppe parole da dover leggere. Molte molte altre che se ne farebbe volentieri a meno.
Costantemente tra le une e le altre mi dimeno. Ogni tanto ricordo quelle da proteggere.



Post post scriptum
                                                RICORDI?
C'era un argine ingrossato;
un libro di Nietzsche
e una frase di Brecht.

- "Perdere."
- "Odiare."
Furono parole pendenti
per prime dalle tue di labbra
(io - per me -
avrei preferito la notte
che brucia lo stomaco
bevuta d'un sorso),
ho sentito spesso la tua

Presunzione = fuggire da se stessi perché assoggettati ad altri

e ne ho ricavato febbri insonni.
        
                                   Eduardo Olmi - Il porcospino in pegaso

6 gennaio 2011